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Downshifting, a chi non piacerebbe?

Downshifting, a chi non piacerebbe?

Letteralmente significa “muoversi verso il basso”, più colloquialmente c’è chi lo traduce come “scalare le marce, rallentare”. Come spesso accade, però, per i neologismi in lingua inglese, la traduzione in italiano è inevitabilmente approssimativa. Ecco perché anche da noi è entrato nel linguaggio comune così com’è nella lingua dei sudditi di Sua Maestà, cioè downshifting.
Simone Perotti ce l’ha fatta, ed ha racchiuso nel suo libro la sua avventura, puoi vedere anche il suo sito


Downshifting: cosa vuol dire?

Che significa? Molte cose in una. Significa ad esempio prendersela con calma, lentamente, non affannarsi, in primo luogo per le questioni di lavoro, i soldi, la carriera. Il contrario dello yuppismo anni ’80. Significa fare meno ma anche fare meglio, con più passione e più senso e in modo più semplice (magari rinunciando all’ultimo modello di smartphone che invece di semplificarci la vita ce la complica con aggiornamenti continui, rischi di attacchi di nuovi virus, moltiplicazione di funzioni che nessuno utilizzerà mai), a prescindere da quello che si fa. Significa avere più tempo per sé, la propria famiglia, gli amici, gli hobby, perché no anche per le vacanze, a patto ovviamente che non siano troppo costose. Perché il downshifting, moda, fenomeno culturale o qualsiasi altra cosa sia o stia diventando, predica una riduzione un po’ in tutti quegli aspetti che in una normale esistenza di una persona occidentale, o comunque vivente in un’economia industrializzata (anche in Cina, però, se ne accorgeranno presto), provocano stress, ansia, perdita di contatto con le cose che hanno più senso nella vita. E, alla fine, rischiano di far perdere il senso e il gusto di vivere.

Che il downshifting cominci a diffondersi in maniera pervasiva fra le maglie della società, anche se lenta (non potrebbe essere altrimenti…), è dimostrato pure da piccole cose come il fatto che abbia conquistato una voce sull’enciclopedia libera di Wikipedia. Anche nella versione in italiano, dove viene liberamente tradotto con “semplicità volontaria”.

Breve storia del downshifting

Difficile porre un inizio preciso alla diffusione del downshifting, come per tutte quelle tendenze che da fenomeno di nicchia diventano diffuse fra ampie fasce di popolazione, conosciute, praticate. Lo si data, in genere, intorno alla prima metà degli anni ’90, quando comincia ad essere chiaro a molti, soprattutto professionisti affermati e manager in carriera o aspiranti tali, che vivere per produrre, per guadagnare e poi consumare (secondo lo schema “lavoro, produco, guadagno, pago, pretendo, consumo”), non è che apra poi le porte a tutta questa felicità.

Quanto alla paternità del neologismo, pare sia da attribuire ad uno studio del Trends Research Institute di New York, risalente a metà anni ‘90, che con questa espressione intendeva individuare le persone che scelgono uno stile di vita meno faticoso, meno gratificante in termini economici ma molto, molto più gratificante dal punto di vista della qualità della vita personale. Anni dopo, il neologismo trovò spazio nel New Oxford Dictionary.

Con l’avvicinarsi degli anni 2000 arrivarono le prime interpretazioni sociologiche del downshifting e i primi volumi che lo affrontavano in maniera strutturata. Fra gli scritti più celebri, per chi volesse approfondire con una lettura magari durante le feste di Natale, si possono citare quelli della sociologa statunitense Juliet Schore (docente di sociologia al Boston College). Fondamentale è anche il testoDownshifting: come lavorare meno e godersi di più la vita, scritto da John Drake, pubblicato dall’ex-fondatore e poi a.d. di una società di consulenza sulle risorse umane di grande successo, John Drake.

Ma anche in italiano si contano ormai, col passare degli anni, numerosi volumi che variamente declinano l’arte di fare downshifting, i cui adepti vengono conseguentemente indicati come “downshifter”. Uno dei più famosi è senz’altro Simone Perotti, anch’egli manager di successo che ha deciso di mollare tutto e abbandonare la città tentacolare (Milano) per ritagliarsi una vita più a misura d’uomo in un ambiente non molto distante geograficamente ma culturalmente (le Cinque Terre, in Liguria), come racconta nel volume Adesso basta. Lasciare il lavoro e cambiare vita.

Downshifting e decrescita (felice)

Se tutti facessimo downshifting, che cosa succederebbe? Nessuno può dirlo, ovviamente. E nonostante questa filosofia di vita stia facendo proseliti (secondo Datamonitor nel 2007 c’erano nel mondo circa 16 milioni di lavoratori pronti a “downshiftare”, oggi con ogni probabilità sono molti di più), la larghissima maggioranza di noi o è ancora attratta fatalmente dall’equazione lavoro di più = guadagno di più, oppure non riesce a uscire dal meccanismo della vita-as-usual anche se sente che gli ingranaggi lo stanno pian piano stritolando.

Va detto però che a livello macroeconomico il downshifting evidenzia profonde interconnessioni con la filosofia “slow”, che è poi quella del movimento slow food ma anche, più recentemente, del movimentoslow money, altrimenti detto dei capitali pazienti, che rigetta il modello dell’investimento a breve, brevissimo termine e preferisce gettare lo sguardo e l’aspettativa di un ritorno economico su orizzonti di lungo periodo.

In particolare, il downshifting sembra avere una spontanea ed evidente affinità con gli economisti che, contro la teoria della crescita-produzione-consumo infiniti, teorizzano il modello della decrescita(felice) e hanno il loro maggiore esponente nell’economista e filosofo francese Serge Latouche, professore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi XI. Con tutte le conseguenze che si possono immaginare sul consumo di energia, la produzione di rifiuti, la congestione dei trasporti e così via.

Le dieci regole d’oro del downshifting

Ma se voglio fare downshifting, se questa filosofia di vita m’ispira ma fatico a tradurla in concreto, da dove posso partire? Per iniziare, si può prendere spunto dal “decalogo” stilato da una delle guru internazionalmente riconosciute del downshifting, ovverosia Tracey Smith, che qualche anno fa si è inventata in Gran Bretagna la settimana del downshifting, diventata ormai un appuntamento di risonanza internazionale.

Ecco, dunque, quali sono le regole del buon downshifter. Che strizzano anche l’occhio al green e ad uno stile di vita sostenibile. Come dire che tutto si tiene, alla fine.

1) Fai un esame del tuo budget di tempo e del tuo budget finanziario.

2) Taglia una carta di credito (in senso letterale!) come gesto simbolico e liberatorio.

3) Dona qualche oggetto, giocattoli, vestiario ad un ente caritatevole, così sperimenti un comportamento di natura gratuita.

4) Fai un elenco dei tuoi acquisti settimanali e tagliane almeno 3 (non essenziali).

5) Pianta qualcosa in giardino, coltivalo, innaffialo e poi mangialo, per imparare che non tutto il cibo si deve acquistare.

6) Cucina un pranzo utilizzando ingredienti di stagione, locali e preferibilmente organici.

7) Goditi la grandissima gioia di allevare qualche gallina (non in batteria).

8) Realizza con le tue mani qualche biglietto o cartoncino per le prossime feste in calendario.

9) Stasera (non domani, stasera!) spegni la televisione, accendi la radio e fai qualche gioco in famiglia o una bella chiacchierata.

10) Programma una mezza giornata lontana dal lavoro da trascorrere con qualcuno a cui vuoi bene.

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